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Home / Dossier / NONVIOLENZA / Così muore il Tibet

ECCO COME MUORE IL TIBET

di Carlo Buldrini*

Per secoli il Tibet è stato per l’Occidente un paese esotico, segreto, inaccessibile. È stato «Shangri-La», una terra favolosa, lo scrigno in cui era racchiusa una perduta spiritualità. Da tempo, ormai, questo mito è andato in frantumi. Ma è stato il 3 luglio di quest’anno, alle 9 di sera, che la mitica contrada di Shangri-La (descritta nel 1933 da James Hilton nel romanzo Orizzonti perduti) è stata definitivamente sepolta. Quella sera, nella nuovissima stazione ferroviaria di Lhasa, a 3.600 metri di altezza, è arrivato «Qing 1», il primo treno della storia del Paese delle nevi. Il «treno del cielo» porterà ogni giorno nella capitale della Regione autonoma del Tibet 4.000 passeggeri. La maggior parte saranno turisti. Quasi tutti saranno cinesi. L’Ufficio nazionale per il turismo di Pechino prevede che, grazie alla nuova ferrovia, il Tibet avrà mezzo milione di visitatori in più all’anno. Le entrate, nel 2010, raddoppieranno. Assieme ai turisti, il nuovo treno porterà a Lhasa anche tanti cinesi di etnia Han che, grazie agli incentivi del governo centrale (maggiorazione dei salari dell’87% e, dopo 18 mesi di lavoro, tre mesi di ferie pagate nella «madrepatria»), decideranno di stabilirsi in questa remota regione himalayana. L’inaugurazione della ferrovia Golmud-Lhasa apre così un nuovo capitolo della storia del Tibet. Ma potrebbe anche essere l’ultimo: il Tibet, con la sua storia e le sue tradizioni, rischia di scomparire.

Da molti anni Lhasa non è più una città tibetana. Nella città vecchia, quasi tutti gli edifici sono stati prima rasi al suolo e poi ricostruiti in un improbabile stile «neo-tibetano». La distruzione venne decisa fin dai tempi del suo primo piano regolatore. La stesura del piano iniziò nel 1959. Venne completata solo nel 1980. Quell’anno, con il «documento n°. 31», il comitato centrale del Partito comunista cinese affidò agli urbanisti il compito di fare di Lhasa «una città ricca, civile e pulita». Il piano regolatore venne approvato dal governo di Pechino nel 1984. Subito dopo, nella capitale del Tibet, arrivarono i bulldozer. La parte vecchia della città venne sventrata. Centinaia di case vennero rase al suolo. Al loro posto sorsero anonimi edifici con le «caratteristiche locali», una caricatura dell’architettura tibetana preesistente. Dopo la «bonifica» della città vecchia è oggi scomparsa quella fitta ragnatela di piccole strade che rendeva difficili gli spostamenti degli automezzi dell’esercito e della polizia cinesi durante le manifestazioni di protesta dei tibetani. Nel 1959 Lhasa copriva una superficie di meno di tre chilometri quadrati. Oggi è di 53 kmq. Il nuovo piano regolatore prevede che la capitale del Tibet raggiunga in un prossimo futuro un’estensione di 272 kmq., cinque volte le dimensioni attuali. Gli abitanti di Lhasa sono passati dai 30.000 del 1959 ai 240 mila di oggi. Più del 60 per cento sono cinesi di etnia Han. Sono soldati, poliziotti, funzionari del partito comunista, impiegati, tecnici e lavoratori delle costruzioni, nonché un numero sempre crescente di commercianti.

Drepung si trova nell’estremità occidentale della città. Era il più prestigioso dei tre grandi monasteri Gelug situati nella periferia di Lhasa. Gli altri due erano Sera e Ganden. Durante la Rivoluzione Culturale i tre monasteri subirono danni gravissimi. Le Guardie Rosse fecero saltare con la dinamite le mura di molti edifici. Le travi e i pilastri di legno vennero portati via. Le immagini di terracotta vennero spezzate. Thangka e oggetti preziosi finirono in Cina. Gli oggetti di rame e di ottone vennero fusi per farne armi e munizioni. I libri religiosi vennero bruciati. Le «pietre-mani» furono utilizzate per lastricare latrine. Un’intera civilizzazione venne spazzata via. A Drepung studiavano 10.000 monaci. Oggi sono poche centinaia. Alle spalle della grande Sala delle riunioni, gli edifici addossati alla montagna giacciono ancora in rovina. Le biblioteche di molti collegi hanno le pareti annerite dagli incendi. In alcune, è possibile vedere pezzi di scaffalature con dentro, carbonizzati, gli antichi libri dei lama. Da Drepung un viottolo sassoso riconduce alla strada principale. È un largo viale rettilineo che, per otto chilometri, attraversa l’intera città. Percorrerlo a piedi permette di osservare da vicino lo sviluppo della Lhasa moderna.

Lungo un tratto non ancora asfaltato di Beijing Xilu (via Pechino Ovest), vasti cantieri costruiscono interi quartieri residenziali. Sono formati da edifici multifamiliari di quattro piani, tutti uguali tra loro. Sulle gru, in azione sopra le costruzioni, sventola una bandiera rossa. Sui muri di cinta, con grandi caratteri cinesi, c’è scritto: «Edifici di grande qualità destinati a durare nel tempo». Sopra una succursale della China Construction Bank un cartellone pubblicitario, in lingua inglese, annuncia: «Faremo del Tibet una regione moderna ed economicamente sviluppata». Ai lati di Beijing Xilu sorgono adesso delle costruzioni di un solo piano. Le saracinesche sono tutte sollevate. Su alcune insegne spiccano i caratteri cinesi «ka» e «la» seguiti dalle lettere «OK». Il tutto sta per «karaoke». Ma sono bordelli. Le porte d’ingresso sono schermate da sporche tende scolorite. Dalle finestre, con le tendine scostate, si vedono all’interno le prostitute cinesi, sedute su vecchi divani di velluto. Alcune aspettano i clienti in piedi, sulla soglia d’ingresso. Se ne stanno immobili, come delle belle statuine. Solo dopo averle superate sussurrano alle spalle: «Hallo, hallo». L’intera Lhasa è un grande bordello. Nel 1950, quando i cinesi invasero il Tibet, dissero che avrebbero eliminato le «piaghe sociali dell’antica società». Dopo 56 anni di occupazione militare, nella capitale della Regione autonoma del Tibet, alcolismo, gioco d’azzardo e prostituzione dilagano. A Lhasa ci sono più di 2.000 bordelli. Le prostitute sono 10.000. Gran parte del racket è nelle mani degli alti gradi dell’Esercito popolare di liberazione. Per le gerarchie militari si tratta di un «business privato».

A Beijing Zhonglu (via Pechino Centrale) inizia la «city», il centro direzionale e commerciale della città. Gli edifici sono moderni, quasi futuristi. La sede della China Telecom è il simbolo della nuova città. Dodici piani di vetro e acciaio con, in cima, un’antenna che buca il cielo blu di Lhasa. Il traffico scorre veloce: jeep Toyota, taxi Volkswagen-Santana, minibus. Tutti i negozi hanno delle grandi insegne rosse, scritte con caratteri cinesi. Nella capitale del Tibet, se si esclude la zona del Barkor nella città vecchia, ci sono oggi 13.000 esercizi commerciali. Quelli gestiti dai tibetani sono trecento. L’ultimo tratto della grande arteria che attraversa la città prende il nome di Beijing Donglu (via Pechino Est). Costeggia il Barkor, il quartiere con al centro il Jokhang, l’edificio più sacro di tutto il Tibet. Il lastricato di fronte all’ingresso del tempio è lucido come uno specchio. Vecchie donne tibetane, con le gonne nere legate con uno spago all’altezza delle caviglie, fanno le prostrazioni. L’interno del Jokhang è buio. L’odore rancido del burro di yak impregna l’aria. La cappella di Jowo Shakyamuni si trova nella parte orientale dell’edificio. È piena di fedeli. Il mormorio dei tibetani che recitano mantra è rotto ogni tanto dal suono squillante di una campanella. Il Jokhang è chiamato anche «Cattedrale centrale», ma il termine è improprio. Le cattedrali europee, con le guglie e i pinnacoli protesi verso l’alto, esprimevano l’ansia dell’uomo per il divino. Le grandi vetrate luminose invitavano i fedeli a rivolgere lo sguardo al cielo. Il Jokhang, invece, è un edificio basso, di soli due piani. Al suo interno non c’è luce. L’architettura, qui, non rappresenta la preghiera ma la meditazione. Gli occhi di Jowo Shakyamuni (il Buddha all’età di 12 anni) sono socchiusi. Non si aprono al mondo ma cercano di scandagliare il profondo dell’animo.

Incontro il mio «contatto» in un piccolo ristorante della città vecchia. Il giovane che mi siede di fronte ha una faccia aperta e cordiale. Vive di lavori precari. Parliamo della nuova ferrovia Golmud-Lhasa. «Servirà ad aumentare la presenza militare cinese in Tibet», dice. «Altre decine di migliaia di cinesi Han si stabiliranno nel nostro Paese. Ormai, per noi, sono come il virus in un computer…». La nuova ferrovia, per il governo della Repubblica popolare cinese, costituirà un importante corridoio strategico. Permetterà di raggiungere il cuore del Tibet, facilitando i movimenti di truppe e lo spostamento di armamenti pesanti, missili compresi. Per questo Pechino teme adesso i sabotaggi. Il comando militare della Regione autonoma del Tibet e quello della provincia cinese del Qinghai, hanno predisposto una rete di sicurezza lungo tutti i 1.142 chilometri del percorso. Diecimila uomini, militari e civili, sono stati mobilitati. Muniti di walkie-talkie, pattuglieranno i binari giorno e notte. Il giovane tibetano che mi siede di fronte è pessimista: «Presto i cinesi cancelleranno per sempre la nostra cultura. Oggi, a Lhasa, conta solo fare soldi. Non possiamo competere con i cinesi. Per ottenere un buon impiego bisogna essere di lingua madre cinese. Per iniziare una qualsiasi attività bisogna avere i soldi, i contatti giusti e, possibilmente, la tessera del Partito comunista in tasca. Siamo diventati dei cittadini di seconda categoria nella nostra stessa terra». I tibetani si sentono abbandonati. Nessuno sembra voler ricordare che la risoluzione dell’Onu n°. 1723 del 1961 riconosceva al Tibet il «diritto all’autodeterminazione».

L’ultimo giorno a Lhasa è dedicato alla visita del superbo Potala, l’ex residenza del Dalai Lama, il simbolo architettonico dell’intero Paese. Il 17 dicembre 1994 l’Unesco lo ha inserito nella «World Heritage List». Ne chiede così la protezione «a beneficio di tutta l’umanità». L’immenso palazzo è oggi un lugubre museo. Lo visitano più di duemila turisti al giorno. Con l’apertura della ferrovia Golmud-Lhasa il numero dei visitatori è destinato a raddoppiare. Malgrado la sua mole imponente, la struttura del Potala è fragile. L’edificio è costruito con il fango (i mattoni essiccati al sole) e con il legno. Sotto il peso dei troppi visitatori la struttura è destinata a cedere.

Dall’alto del Potala il punto di vista è grandioso. Con lo sguardo si abbraccia l’intera valle del fiume Kyichu. Sullo sfondo, una catena di montagne color grigio azzurro ha i picchi innevati. Ma la città di Lhasa offre uno spettacolo desolante. I suoi edifici sembrano tante scatole di fiammiferi. Sono grigi, monotoni, tutti orientati nella stessa direzione. È il risultato della «pianificazione uniforme» imposta dal governo di Pechino. La mitica «città proibita» non esiste più. Al suo posto c’è la «moderna città socialista», con i suoi quartieri residenziali protetti da alti muri di cinta e sorvegliati da uomini armati. Con le sue strade rettilinee su cui si affacciano negozi che vendono oggetti di poliestere e di plastica. Con le sue sale da biliardo, i bar-karaoke, i bordelli. Con le zone militari, le caserme, le prigioni. Con la popolazione tibetana chiusa in un ghetto destinato a scomparire per sempre.

 

*NOTE

CARLO BULDRINI ha vissuto in India più di trent’anni. Ha scritto per varie testate italiane e indiane ed è stato addetto reggente dell’Istituto Italiano di Cultura di New Delhi. Nell’anno accademico 2001-2002 ha insegnato presso la Jamia Millia Islamia, l’università islamica di Delhi. È autore di In India e dintorni (1999) e, con le Edizioni Lindau, ha pubblicato Lontano dal Tibet. Storie da una nazione in esilio (2006).


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