SHAKABPA
di Carlo Buldrini*
Un foglio di carta tibetana ingiallito dal tempo. Il bordo, in alto, corroso dai “pesciolini d’argento”. La scrittura al centro della pagina è in tibetano, nella sua forma più svolazzante. Subito sotto, battuta a macchina, c’è la traduzione in lingua inglese: “Il latore della presente, Tsepon Shakabpa, Capo del Dipartimento delle finanze del Governo del Tibet, viene inviato da questo Governo in Cina, negli Stati Uniti d’America, nel Regno Unito e in altri Paesi per esplorare la possibilità di intraprendere scambi commerciali tra il Tibet e i suddetti Paesi.
Saremo pertanto grati…”. Al documento è stato apposto il sigillo del Kashag, il governo tibetano. E’ datato “Lhasa, il 26esimo giorno dell’ottavo mese del Maiale di Fuoco” (il 10 ottobre 1947). E’ l’unico passaporto, ancora oggi esistente, emesso dal Tibet quando era una nazione indipendente.
Questo prezioso documento è stato per la prima volta mostrato al pubblico di New Delhi il 23 e 24 giugno 2007, nel corso della “Conferenza per un Tibet indipendente” organizzata da Friends of Tibet (India), una ong indiana. Ed è proprio grazie a questa organizzazione che il passaporto è stato ritrovato.
Tutto inizia nel 2003. A un tibetano di nome Kongpo Dhondup viene mostrato il passaporto in un piccolo negozio di antiquariato, nei pressi di Durbar Square a Kathmandu. Dhondup capisce subito l’importanza del documento. Ne parla con Geshe Pema Dorje, un ex direttore del Sarah Institute of Buddhist Dialectics, in India. Pema Dorje contatta a sua volta Friends of Tibet. “Bisogna fare il possibile per ottenere quel passaporto” gli dice Tenzin Tsundue, il segretario dell’organizzazione. Ma la cosa non è così semplice.
I negozi di antiquariato di Kathamandu sono il punto d’arrivo di un commercio illegale e clandestino che ha radici lontane. Per l’arte tibetana, l’epicentro di questo traffico è Kalimpong, una cittadina del West Bengal, a ridosso delle montagne. Qui pullulano ladri e contrabbandieri. Ed è a Kalimpong che viene raccolto, prima di essere smistato nei negozi di Kathmandu e di New Delhi, il materiale rubato nei monasteri e nelle abitazioni private di una vasta area del territorio himalayano.
A Kathmandu, l’antiquario dei pressi di Durbar Square, capisce subito l’interesse dei tibetani per il passaporto appartenuto all’ex ministro delle finanze del governo di Lhasa. Dice che, se il documento verrà consegnato personalmente al Dalai Lama, sarà pronto a fare un prezzo di favore. Bluffa. In un primo tempo chiede ben 15.000 dollari. Dhondup lo fa scendere a 10.000. Oltre, non riesce ad andare. Per i tibetani in esilio si tratta di una cifra enorme. Friends of Tibet (India) avvia una sottoscrizione. Bisogna raccogliere mezzo milione di rupie. Tutto procede troppo lentamente. C’è il pericolo che il documento finisca in mano cinese e venga distrutto.
L’ong si rivolge allora al monastero di Pemachuding, in Nepal. Chiede un prestito. Nel marzo 2004, finalmente, Kongpo Dhondup è in grado di consegnare mezzo milione di rupie in contanti all’antiquario di Durbar Square. Ottiene il passaporto. Domenica 28 marzo 2004 il prezioso documento viene consegnato da Friends of Tibet (India) a Tenzin Geshe, il segretario privato del Dalai Lama.
Nella piccola fotografia in bianco e nero attaccata al passaporto, Tsepon Shakabpa, l’intestatario del documento, ha gli occhi a mandorla e lo sguardo fiero. Ha le labbra carnose, i baffetti sottili, i capelli lisci con la scriminatura al centro. Il cappello “a piattino” è l’inconfondibile segno di appartenenza alla nobiltà locale.
Shakabpa, a soli 23 anni, entrò a far parte dell’amministrazione centrale tibetana. Dal 1930 al 1950 fu capo dipartimento (ministro) delle finanze. Nel 1948 il governo di Lhasa inviò una delegazione di cinque persone in Cina, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Svizzera, Italia, Egitto, Arabia Saudita e India per promuovere gli scambi commerciali fra il Tibet e questi paesi. Shakabpa fu il capo-missione.
Nel 1951, quando i cinesi avevano ormai occupato militarmente l’intero Tibet, Shakabpa andò a vivere a Kalimpong, in India. Nel 1959, anche il Dalai Lama fu costretto a lasciare il Paese delle Nevi e a chiedere asilo politico all’India di Jawaharlal Nehru. Fino al 1963, Shakabpa fu il rappresentante a New Delhi del Dalai Lama e del governo tibetano in esilio che aveva trovato sede a Dharamsala nell’India settentrionale.
Tsepon Shakabpa si trasferì poi negli Stati Uniti. Visse a Manhattan. Nel 1967, per i tipi della Yale University Press, pubblicò un libro divenuto famoso: “Tibet: A Political History”. Nel volume, Shakabpa parla anche della sua missione all’estero del 1948. In India, la delegazione incontrò il Mahatma Gandhi. Scrive Shakabpa: “Quando gli offrii la sciarpa cerimoniale (khata) il Mahatma Gandhi mi chiese se era stata fabbricata in Tibet. Gli risposi che, nel nostro paese, importiamo il materiale per fare questo tipo di sciarpe da cerimonia. Il Mahatma si dimostrò molto sorpreso. Ci disse che era molto importante che le cose di cui facciamo uso quotidiano, vengano prodotte nel nostro stesso paese”.
Tornato in India, Shakabpa riprese a vivere nella casa di Kalimpong. Qui, curò l’edizione in lingua tibetana della sua storia politica del Tibet. L’opera venne pubblicata in due volumi, nel 1967. La versione inglese del libro venne poi nuovamente pubblicata in paperback, nel 1984, dalla Potala Publications di New York.
Tsepon Shakabpa morì per un cancro allo stomaco il 23 febbraio 1989, quando si trovava nella casa di suo figlio a Corpus Christi in Texas. Subito dopo la morte, nella sua abitazione di Kalimpong, venne commesso il furto che portò alla scomparsa del passaporto.
Il certificato dell’alto funzionario del governo tibetano è un documento storico importante. Prova che il Tibet, prima dell’occupazione militare del paese da parte della Cina comunista, era una nazione indipendente e, come tale, era riconosciuto dagli altri paesi del mondo, Italia compresa.
Il governo tibetano fece richiesta dei visti per Tsepon Shakabpa in quanto “Capo del Dipartimento delle finanze”. I vari paesi, così come vuole la prassi diplomatica, gli concessero il visto gratuito, in quanto si trattava di un alto funzionario del governo di un paese straniero. E’ così che sul passaporto si legge la dicitura “Official, gratis” vicino ad alcuni visti, “Sans frais, courtoisie”, vicino a quello francese e “Cortesia diplomatica” in quello italiano.
Il visto italiano venne concesso a Shakabpa dal Consolato generale d’Italia di New York il 3 dicembre 1948. E’ il visto numero 20611. Shakabpa entrò in Italia il 15 dicembre 1948, come prova il timbro apposto al visto d’ingresso dove si legge: “Domodossola Valico Ferroviario 3. Entrata. 15. 12. 48”.
Il rilascio di questo visto pone una serie di problemi “diplomatici”. Li si possono riassumere tutti con un’unica domanda: come mai, nel dicembre 1948, il governo della Repubblica italiana riconosceva il Tibet come nazione sovrana e indipendente e, oggi, lo ritiene invece essere parte integrante della Repubblica popolare cinese? Nel corso della visita di stato in Cina del presidente della repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi (dicembre 2004) e della visita a Pechino del presidente del consiglio Romano Prodi (settembre 2006) è stata espressa “la ferma adesione dell’Italia alla politica di una sola Cina” (e cioè che il Tibet – e Taiwan - sono parte integrante della Repubblica popolare cinese). Perché?
Vediamo brevemente cosa è successo in Tibet dal 1948 (quando l’Italia lo riconosceva come nazione indipendente) a oggi. Il 7 ottobre 1950 l’Esercito popolare di liberazione cinese attacca la città di Chamdo, nel Tibet orientale. Inizia l’occupazione militare del paese da parte della Repubblica popolare cinese. Il 9 settembre 1951 la conquista militare del Tibet è un fatto compiuto: i primi tremila soldati di Mao Zedong, seguiti subito dopo da altri 20.000, marciano su Lhasa. Come diretta conseguenza dell’occupazione cinese, in Tibet, muoiono 1.200.000 persone. Nel decennio della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (1966-1976), nel Paese delle Nevi un’intera civilizzazione viene rasa al suolo dalle Guardie Rosse. (In Tibet, nel 1959, esistevano 6.259 monasteri. Nel 1976, al termine della Rivoluzione culturale, ne resteranno in piedi solo 8). Oggi, a Lhasa, vige un orwelliano regime poliziesco. Ogni angolo della città è sorvegliato da telecamere nascoste. Su ogni pianerottolo di condominio c’è un informatore della polizia.
E’ stato tutto questo a far cambiare opinione alla diplomazia italiana sullo stato giuridico del Tibet e sul diritto all’autodeterminazione del popolo tibetano?
La “Conferenza per un Tibet indipendente” si è tenuta a New Delhi presso la Gandhi Peace Foundation. Tenzin Tsundue, il segretario di Friends of Tibet (India), si è presentato con la solita fascia di stoffa rossa legata alla fronte e il kurta nero. Ha fatto un appassionato appello ai tibetani “fuori e dentro il Tibet” a intensificare la lotta in vista delle Olimpiadi di Pechino 2008. “Faremo ricorso alla lotta nonviolenta” ha detto Tsundue. Ma ha poi ammonito: “La nonviolenza, senza un supporto di massa, non funziona”. Al termine dei due giorni di conferenza è stato approvato un documento. In esso si chiede alle Nazioni Unite di dar seguito alla risoluzione 43/47 del 22 novembre 1988 che prevede l’“adozione di misure urgenti per l’eliminazione delle ultime tracce di colonialismo”. I delegati hanno fatto appello a tutti i paesi del mondo affinché si adoperino per porre fine al colonialismo cinese in Tibet e aiutino il popolo tibetano a riconquistare la propria libertà.
*NOTE
CARLO BULDRINI ha vissuto in India più di trent’anni. Ha scritto per varie testate italiane e indiane ed è stato addetto reggente dell’Istituto Italiano di Cultura di New Delhi. Nell’anno accademico 2001-2002 ha insegnato presso la Jamia Millia Islamia, l’università islamica di Delhi. È autore di In India e dintorni (1999) e, con le Edizioni Lindau, ha pubblicato Lontano dal Tibet. Storie da una nazione in esilio (2006).
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